NATURA
Bioluminescenze, le luminarie “green”
Era il 22 dicembre 1882 e un certo Edward Hibberd Johnson, inventore e socio in affari dell’imprenditore americano Thomas Edison, ebbe l’idea di addobbare con delle lampadine colorate l’albero di Natale nella sua casa a New York. Erano 80 lampadine rosse, bianche e blu (i colori della bandiera USA) delle dimensioni di una noce. Antesignano di una prassi che divenne negli anni a venire una consolidata tradizione natalizia: l’allestimento dell’albero di Natale o del presepe con le multicolorate lampadine. Questa piccola invenzione tecnologica messa a punto dall’uomo in natura è presente già dagli albori dell’evoluzione; si pensa, infatti, che la capacità di produrre luce attraverso reazioni metaboliche sia iniziata circa 150 milioni di anni fa. “Brillare di luce propria” in natura significa essere un organismo bioluminescente, con una auto-colorazione luminosa prevalentemente blu, verde o gialla.
Esistono tre tipi principali di bioluminescenza: quella intracellulare, quella extracellulare e quella derivante dalla simbiosi con batteri luminescenti (in questo caso la produzione di luce viene delegata ad organismi che vengono solo ospitati all’interno del corpo). Quest’ultima è la più diffusa nel regno animale, specialmente tra gli animali marini. Quando invece si è direttamente coinvolti, vengono prodotte speciali molecole impiegate nel processo di emissione luminosa, che sono sintetizzate da cellule viventi, con reazioni catalizzate da enzimi. Ma cosa serve la bioluminescenza agli animali? Molti se ne servono come strategia anti-predatoria, ad esempio per confondere o spaventare il predatore. In questi frangenti la bioluminescenza, spesso come serie ripetuta di flash, risulta assai efficace in quanto la luce prodotta intimorisce o disorienta i possibili predatori. In altri casi la luminescenza viene concentrata nella parte ventrale del corpo per mimetizzare l’animale che non risulta ben identificabile dal predatore che deve intercettarlo nell’acqua dal basso verso l’alto. È il caso del pesce nordamericano Porichthys notatus che negli stadi giovanili, appunto per evitare la predazione, “maschera” la sua silhouette vista dal basso con una bioluminescenza direzionata in modo discendente. Stessa tecnica di mimetismo luminoso che viene adottata anche dai calamari Abralia veranyi, nell’Oceano Atlanticoe Euprymna scolopes, delle Hawaii. La prima specie vive in acque di media profondità ma che deve risalire in superficie per nutrirsi dei piccoli invertebrati e sfrutta il posizionamento delle cellule bioluminescenti posizionate sul lato ventrale per rendersi meno visibile, mimetizzandosi con la luminosità di superficie. Il calamaro delle Hawaii, che vive in acque basse in prossimità delle barriere coralline, ospita il batterio bioluminescente simbionte Vibrio fischeri, le cui colonie si insediano in uno speciale organo luminoso all’interno del mantello del calamaro. La luce prodotta dai batteri viene emessa verso il basso e il calamaro può regolare, attraverso speciali tessuti, l’intensità della luce in modo che corrisponda all’intensità di quella lunare, mascherando così la sua sagoma ai predatori che vivono sul fondo. In altri frangenti viene invece emessa luce per attrarre la preda. Classico il caso delle rane pescatrici abissali con il primo raggio della pinna dorsale (detto illicio), che è dotato di un lobo terminale luminoso grazie alla presenza di batteri bioluminescenti, e che viene usato come se fosse l’esca posizionata su una canna da pesca per attrarre le prede. La luminescenza naturale è coinvolta anche nel comportamento riproduttivo degli animali. Non solo le lucciole, infatti, usano questo stratagemma attrattivo. Tra i vermi marini policheti, la specie Odontosyllis enopla, che normalmente vive sui fondali, nei periodi di luna piena, si sposta in mare aperto dove le femmine emettono segnali luminosi per attrarre i maschi. Inoltre, in talune specie, l’intensità della luminosità emessa da alcuni maschi è direttamente proporzionale alle condizioni fisiche, e quindi alla sua idoneità come riproduttore. Chissà se anche tra queste specie si è diffuso un adeguato sistema di controllo della veridicità di questi segnali, che nel nostro contesto umano non può che farci riecheggiare nella mente il popolare proverbio “non è tutto oro quel che luccica”.
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