LA STORIA
Come muore un dittatore: Muammar Gheddafi
Era il 20 ottobre 2011. Si definiva “guida della rivoluzione”, in realtà era un tiranno e un despota inaffidabile
Sirte, Libia, 20 ottobre 2011. “Ma io che vi ho fatto? Non sparate”, supplica Muammar Gheddafi. Un guerrigliero lo sta colpendo alle tempie con la pistola: è impaurito, sanguina. Il volto, sfigurato: di certo è stato picchiato e brutalizzato.
Lo cercavano da tre mesi: per alcuni era in Niger, per altri a Tripoli col viso rifatto da un chirurgo estetico. Invece, lo hanno scovato nascosto in un tunnel della rete fognaria vicino a Sirte, la sua città natale. Ora è appoggiato sul pianale di un pick-up, intorno a lui i ribelli sparano in aria e urlano di gioia.
Gheddafi ha comandato il Paese per 42 anni, e per decenni è stato una spina nel fianco dell’Occidente: secondo Ronald Reagan era un “cane pazzo”. Lui non se ne è mai preoccupato: “Reagan è un ignorante”, rispondeva beffardo.
Occupata dall’Italia nel 1912, la Libia è indipendente dal 1951. Ma non è solo uno “scatolone di sabbia”: nel 1959 la Esso Standard ha scoperto i giacimenti ed è diventata il sesto produttore e il quarto esportatore di petrolio del mondo. Soldi e povertà: il Paese è dilaniato dalla corruzione e dalle lotte fra i clan, e la monarchia filoccidentale di re Idris tracolla. La rivoluzione, incruenta, dura una mattinata: il 1° settembre 1969 Radio Bengasi annuncia la nascita della Repubblica Araba Libica, “libera e sovrana”, in cammino verso “l’unità e la giustizia sociale”.
Al microfono della radio, il capo dei rivoluzionari: l’ufficiale dell’esercito Muammar Gheddafi. Nato da una famiglia beduina, ha solo 27 anni ma grande personalità e carisma, una laurea in Storia e la specializzazione in Inghilterra. Gheddafi non perde tempo: si autonomina colonnello, nazionalizza le compagnie petrolifere, espelle gli stranieri, compresi 20 mila italiani. Soprattutto, incassa miliardi e prova a modernizzare il Paese: programmi scolastici gratuiti, infrastrutture, riforma agraria, assistenza medica, urbanizzazione.
Il Paese sembra con lui e con la sua ideologia, esposta nel 1977 nel “Libro Verde”. Si chiama “Giamahiria”, una sorta di terza via tra capitalismo e socialismo, il potere senza alcuna mediazione, senza partiti né parlamento: la “Repubblica delle Masse”. Si definisce “guida della rivoluzione”, in realtà è un tiranno e un despota inaffidabile: perseguita i suoi oppositori anche fuori dal Paese, finanzia terroristi e guerriglieri in mezzo mondo e finisce nella lista degli “Stati canaglia” del presidente Reagan, che nel 1986 prova a eliminarlo bombardando Tripoli.
Finisce isolato e schiacciato dalle sanzioni dell’Onu. Poi, però, dopo l’11 settembre rinuncia alle armi di distruzione di massa e diventa un alleato dell’Occidente contro il fondamentalismo islamico, fino a firmare con l’Italia un trattato di Cooperazione e Amicizia nel 2008.
Nel 2011, le “primavere arabe” scuotono il Nordafrica. La “giornata della collera” contro il regime inizia il 17 febbraio a Bengasi, ma la repressione di Gheddafi è durissima: definisce “ratti” i ribelli e promette un bagno di sangue “senza pietà, casa per casa”.
Così l’Onu – con la Nato – interviene per fermare il massacro e ad agosto i ribelli conquistano Tripoli.
Gheddafi fugge, mentre il Tribunale penale internazionale spicca un mandato per crimini contro l’umanità.
Il 20 ottobre i ribelli arrivano a Sirte. Alle 7 di mattina il “Rais” decide di scappare all’estero. Con lui, almeno 300 tra mercenari, fedelissimi e guardie del corpo. Per garantirsi un rifugio in Siria accende il cellulare. È la fine: intercettato, i droni americani e i caccia francesi bombardano il convoglio.
Il Raìs tenta la fuga, ma i ribelli lo scovano. E qualcuno – non si sa chi – gli spara a bruciapelo, all’addome e alla testa. Il suo cadavere viene portato a Misurata, esposto al pubblico per quattro giorni e sepolto in un luogo segreto.
Il Paese è libero, ma piomba in una spirale di violenza e guerre locali poiché manca un piano per la sua ricostruzione. Non per caso, infatti, Barack Obama ha definito l’intervento il suo “peggior errore” e, oggi, la Libia è la vera sfida della politica estera di tutto il mondo.
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