L’IDEA
I giapponesi e i gatti
Chi ha dei gatti, non uno però, almeno due e meglio ancora tre o di più (in colonia la gattità emerge in un’evidenza impermeabile al bamboleggiamento umano), almeno una volta è stato trafitto dalla consapevolezza che a loro non interessa che noi li celebriamo, soprattutto in loro assenza e in modi a loro non servono, tipo le feste, i libri, le cose a forma di gatto. Succede piuttosto il contrario, cioè che se entrate a contatto con un gatto comincia un processo di trasformazione che a un certo punto della relazione vi sfuggirà di mano, e diventerete il gatto del vostro gatto. Non va dimenticato infatti che mentre il cane è convinto di essere un umano che sbava, per i gatti noi siamo gatti meno svegli e inspiegabilmente grossi. Così arriviamo al fatto che oggi è la Giornata del gatto e a Milano e Roma ha preso il via la rassegna La città dei gatti, che durerà fino al 13 marzo. Se vi interessa il programma, andate su lacittadeigatti.it. A loro certamente no. Però c’è un popolo che, in tutta la sua stranezza, sembra aver capito qualcosa dei gatti, sono i giapponesi. Lo diciamo qui perché il marcatore di questo filo rosso sta nella letteratura del Sol Levante, popolata di felini che fanno quello che vogliono e per qualche motivo le loro azioni convergono a proteggere le nostre anime.
Ora, la tradizione giapponese brulica di minuscole divinità cui è affidata la custodia di qualcosa, quindi i gatti vi hanno trovato tane a non finire. Sono arrivati dalla Cina nel VI secolo dopo Cristo al seguito dei monaci buddisti, che li portarono con sé per tenere i topi lontani dai manoscritti, da questa migrazione è scaturita una quantità di storie e figure. Il primo gatto giapponese citato in un documento scritto, intorno all’anno Mille, è stato Myobu no Otodo, che significa «Prima dama da compagnia del palazzo», era dell’imperatore Ichijo e aveva al suo servizio una corte di donne. I marinai ne tenevano in barca uno a tre colori perché aveva il potere di tenere legate alle onde e spingere in fondo le anime dei morti in mare. Si narra anche che quando Buddha morì, tutti gli animali lo piansero ma non il gatto, perché sapeva già che Buddha era immortale (secondo una seconda tradizione era perché non gli importava. Anche il gatto è divisivo). Oggi questa sensibilità è un eccellente prodotto da esportazione, e infatti gli scaffali italiani compaiono continuamente versioni italiane di best seller giapponesi. Ve ne citiamo un pugno: «Lei e il suo gatto» di Shinankai Makoto e Nakagawa Naruki quattro donne le ci vite vengono salvate dai gatti e «La mia via con i gatti» di Morishita Noriko, usciti entrambi in questi primi mesi dell’anno per Einaudi. E, a ritroso negli ultimi anni, «Il gatto che voleva salvare i libri» di Natsukawa Sosuke (Mondadori), «Cronache di un gatto viaggiatore» di Arikawa Hiro (Garzanti). Ce ne sono molti altri, ma non dimenticate i sei felini che agiscono in «Kafka sulla spiaggia», di Murakami Haruki, e soprattutto procuratevi una delle innumerevoli edizioni di «Io sono un gatto» di Natsume Soseki. Era il 1905, e grazie al gatto senza nome protagonista del romanzo, osservatore zen della vita umana, la cultura giapponese ha messo la testa fuori dal medioevo. Ci ha messo 1300 anni, ma il gatto è un chirurgo che non ha mai fretta.
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