LA STORIA
Pugni chiusi a Città del Messico
Storie olimpiche: il caso del 16 ottobre 1968
«Se ne pentiranno per il resto della loro vita!», urla furibondo Payton Jordan, il capo delegazione della Nazionale americana: è il 16 ottobre 1968, alle Olimpiadi di Città del Messico Tommie Smith e John Carlos hanno appena trionfato nei 200 metri, ma stanno per essere espulsi dal Villaggio e rispediti a casa con disonore.
I Giochi sono iniziati da quattro giorni in un clima elettrico. Il 20 agosto l’Unione Sovietica ha invaso la Cecoslovacchia e stroncato la “primavera di Praga”, la guerra in Vietnam sta devastando l’anima degli Stati Uniti. Ancora: il 4 aprile è stato ucciso Martin Luther King, e le violenze in 120 città hanno causato 46 morti, 2.600 feriti e 21 mila arresti. La “rivoluzione” giovanile del ’68 al grido “siate realisti, chiedete l’impossibile!” investe tutto il mondo, e anche il Messico. Il 2 ottobre il Movimento Studentesco ha protestato in Piazza delle Tre Culture contro le spese inutili ed eccessive dei Giochi. Feroce la risposta del presidente Gustavo Diaz Ordaz: elicotteri e soldati hanno sparato ad altezza uomo. Non si sa quanti morti, ma per alcuni oltre 500.
Negli Stati Uniti, gli atleti di colore hanno discusso per mesi se boicottare le Olimpiadi per protesta contro le discriminazioni razziali. Alla fine hanno deciso di partecipare, ma è nato il “Progetto olimpico per i diritti umani”: gli atleti hanno capito che possono usare la loro visibilità, che lo sport è anche politica. Tra questi, Tommie Smith e John Carlos. I due conoscono bene cosa sia il razzismo. Tommie, 24 anni, arriva dal profondo Texas. Undici fratelli, famiglia poverissima: casa senza corrente, il padre raccoglie cotone nei campi. Di mattina studia, nel pomeriggio vende auto e la sera si allena.
John, 23 anni, è cresciuto ad Harlem: padre calzolaio, madre infermiera. Da ragazzino rubava merce sui treni e amava nuotare: ma l’iscrizione alle piscine era riservata ai bianchi.
Entrambi sono vicini al Black Panther Party: un partito rivoluzionario, con venature maoiste e una organizzazione militare clandestina. Rappresenta il movimento di liberazione degli afroamericani, e alla “non-violenza” di Martin Luther King oppone il “principio di autodifesa” anche violenta come strumento di lotta.
Il 16 ottobre si corre la finale. Una gara fantastica: Smith con 19’’83 demolisce il record del mondo, Carlos è terzo, in mezzo l’australiano bianco Peter Norman. Anche la sua storia è particolare: nato povero, a 13 faceva l’apprendista macellaio, e la corsa è la sua unica possibilità di rivincita.
Poi la premiazione. C’è qualcosa nell’aria ma Avery Brundage, il dispotico e razzista presidente del Comitato Olimpico Internazionale ha già minacciato: «Credo che nessuno sarà così stolto da protestare».
Invece Smith e Carlos salgono sul palco scalzi, per rappresentare le loro radici e “la povertà in cui la gente ha vissuto in America” dirà poi Tommie. Sul petto, la coccarda del “Progetto olimpico”, perché – spiegherà – “noi lottiamo per i diritti civili”. Anche Peter si unisce a loro: la coccarda è ben visibile sul suo petto.
Parte “Star Spangled Banner”, l’inno americano. I due abbassano il capo: non è una offesa alla bandiera, ma una “preghiera, un grido di libertà per chi subiva il razzismo” o era morto. Contemporaneamente alzano il pugno chiuso con un guanto nero: Smith il destro, John il sinistro. Un simbolo di solidarietà, di unità e di forza.
Lo stadio è avvolto in un silenzio agghiacciante: il gesto ha colpito, il podio si è trasformato in una tribuna politica. È il potere simbolico dello sport, che trasmette messaggi e valori: quell’immagine diventa subito parte della Storia del Novecento. Il resto è noto: Tommie e Carlos vengono espulsi e ostracizzati in patria e per loro non sarà facile; così come per Norman, mai più convocato in nazionale. Ma non si sono mai pentiti: “chi non è disposto a difendere i propri diritti è condannato a cadere”, confermerà anni dopo Smith, dedicando il suo pugno alle “generazioni che sarebbero venute dopo di me, perché crescessero in un Paese migliore”.
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