DOPO L’ASSOLUZIONE
Caso Macchi, «giustizia per Binda»
Risarcimento: tutto tace. Sollecito della difesa
Era già successo nel 2021. Dato che i giudici della quinta Corte d’Appello di Milano tardavano a fissare l’udienza per discutere e valutare la richiesta di indennizzo per i tre anni e mezzo di carcerazione preventiva patiti da Stefano Binda - il cinquantaseienne di Brebbia assolto in via definitiva dall’accusa di aver ucciso Lidia Macchi -, i suoi legali, gli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli, si erano visti costretti ad inviare una lettera di sollecito. A più o meno tre anni di distanza - dopo il tira e molla tra Milano (dove la Corte d’Appello aveva detto sì a risarcirlo con 303mila euro) e Roma (dove invece la Corte di Cassazione ha annullato il precedente verdetto, rinviando l’intera questione a un nuovo collegio della Corte d’Appello ambrosiana), gli storici difensori di Binda si sono ritrovati punto e a capo nella stessa identica situazione. Così, di fronte all’inerzia della sezione della Corte d’Appello competente per materia, nei giorni scorsi non hanno potuto fare altro che riproporre un’istanza affinché possa esser fissata in tempi brevi l’ormai arcinota richiesta di indennizzo.
A ben vedere, non hanno mica tutti i torti. In fondo, la sentenza di rinvio della Cassazione risale al giugno scorso. Da allora sono trascorsi più di nove mesi di silenzio. Con buona pace di Binda e di un risarcimento che, ad oltre tre anni dalla sentenza da parte della Cassazione che ha reso definitiva la sua assoluzione, appare sempre più una chimera all’ex allievo del liceo Cairoli. Fonti di Palazzo di Giustizia a Milano confermano che la nuova istanza dei due legali varesini è giunta a destinazione. Nel senso che è stata recapitata al relatore del collegio di tre giudici della quinta Corte d’Appello in nuova composizione. Fino a ieri, però, l’udienza di discussione non risultava ancora essere stata calendarizzata. Una volta fissata, il sostituto procuratore generale Laura Gay, la stessa che aveva impugnato la sentenza con la quale era stato prestato consenso all’indennizzo, si è ripromessa di presentare una nuova, ulteriore memoria per contrastare la richiesta di risarcimento. Insomma, sarà battaglia. Di nuovo.
A seguire le motivazioni della Cassazione, i giudici della Corte d’Appello di Milano avevano sbagliato ad accogliere le richieste risarcitorie di Binda non avendo risposto in modo adeguato a quello che in casi come questi è considerato il quesito clou: c’erano o meno presupposti fondati affinché il gip del Tribunale di Varese, Anna Giorgetti, emettesse l’ordinanza di custodia cautelare che ha poi portato all’arresto di Binda all’alba del 15 gennaio 2016 e poi la tenesse in vita? La difesa sostiene da sempre che Binda «non ha mai tenuto un comportamento gravemente colposo o comunque tale da lasciare supporre agli inquirenti che fosse coinvolto a pieno titolo nell’omicidio di Lidia Macchi e, di conseguenza, dovesse essere sottoposto a custodia cautelare»; e che «non può essere ritenuta gravemente colposa la scelta dell’allora indagato di avvalersi della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di garanzia».
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