COSA NOSTRA
Con il Maxiprocesso il mondo conosce la mafia
L’evento storico del 10 febbraio 1986. Il solo atto di accusa è spaventoso: 8607 pagine per 474 imputati

Palermo, 10 febbraio 1986. Gli elicotteri volteggiano nel cielo, sui tetti si intravedono dei cecchini. Gira molta polizia e per le strade si vive una strana calma, piena di tensione. Almeno 300 giornalisti di tutto il mondo stazionano di fronte all’imponente bunker a ridosso dell’Ucciardone, il carcere della città: è un’aula di cemento illuminata a giorno, costruita in soli 20 mesi e costata 18 milioni di dollari. Dipinta di verde, sembra un’astronave ottagonale e ai lati sono montate 30 gabbie.
Presieduto dal giudice Alfonso Giordano sta iniziando il maxiprocesso alla mafia. Un evento storico, il solo atto di accusa è spaventoso: 8.607 pagine per 474 imputati in un colpo solo. Rispondono di associazione mafiosa, omicidio, traffico di stupefacenti e molti altri reati. Alle 10, nelle gabbie prendono posto 272 detenuti, alcuni vestiti bene, altri in tuta da carcerati. 119 sono latitanti, ma si vedono grandi boss considerati intoccabili: Luciano Liggio, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Leoluca Bagarella.
Dalla fine degli anni Settanta “Cosa Nostra” ha scalzato i marsigliesi nel controllo degli stupefacenti, e la Sicilia è diventata il nodo strategico nella raffinazione della droga proveniente dall’Asia, nella distribuzione e nella vendita in Europa e in America. La “pizza connection” - il controllo del mercato della droga - ha portato a una ricchezza incredibile e a una nuova guerra di mafia tra i “Corleonesi” di Totò Riina e le famiglie Inzerillo, Badalamenti e Bontade.
Una mattanza: oltre mille morti. Anche troppi servitori dello Stato, tra funzionari, poliziotti, magistrati, politici: Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici, Ninni Cassarà e molti altri. Ma finalmente lo Stato ha reagito. Al Tribunale di Palermo nel 1983 è arrivato Antonino Caponnetto, che ha organizzato un pool di magistrati esclusivamente impegnati contro la mafia: Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello.
Il processo è lo straordinario risultato del loro lavoro: metodi moderni, migliore coordinamento, collaborazione. Poi, nel 1984 la svolta decisiva: il “boss dei due mondi”, Tommaso Buscetta - un mafioso arrestato in Brasile - si è “pentito” e ha iniziato a parlare. E tutto il mondo ha capito cosa sia “Cosa Nostra”: un soggetto unico, una «pericolosissima associazione criminosa che, con la violenza e l’intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore», scrivono i magistrati.
La cellula primaria è la “famiglia”, che controlla una zona o una città, composta da “uomini d’onore”, o “soldati”, gestiti da un “capodecina” e governata da un capo, assistito da uno o più “consiglieri”. L’attività è coordinata dalla “cupola”, un organismo collegiale di cui fanno parte i “capi-mandamento”, cioè i rappresentanti delle famiglie. Rigide le regole per l’arruolamento: nessuna parentela con gli “sbirri” e doti di spietatezza. Di fronte a tre “uomini d’onore” il neofita prende una immagine sacra, la imbratta con il suo sangue, le dà fuoco, la palleggia tra le mani e giura fedeltà.
Il processo procede ordinato e regolare, ma non mancano episodi singolari: Vincenzo Sinagra arriva con la camicia di forza ma è un simulatore, Salvatore Ercolano si cuce la bocca con una spillatrice, Michele Greco accusa il pentito Salvatore Contorno di essere un cornuto, e lo stesso Contorno si esprime in un dialetto talmente stretto che il giudice deve nominare un perito linguistico per la traduzione. Poi, il 16 dicembre 1987, dopo 639 giorni, 349 udienze, 919 testimoni, 1.314 interrogatori e 635 arringhe difensive, la sentenza: 346 condannati e 114 assolti. Sui colpevoli si abbattono 2.665 anni di galera e 19 ergastoli.
Fu la vittoria dello Stato democratico che dimostrò di saper reagire e un colpo durissimo per Cosa nostra, “materiale” ma anche culturale: il mito dei mafiosi impuniti e invincibili vacillò, per la prima volta. Ma la strada era ancora lunga, come dimostrarono le morti, nel 1992, di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: due veri eroi dell’Italia contemporanea.
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