CURIOSITÀ
Kintsugi, l’arte della riparazione

Narra la leggenda che nel XV secolo d.C. Ashikaga Yoshimasa, ottavo shogun, la più alta carica delle forze armate data a un samurai dall’imperatore, della dinastia che governò il Giappone dal 1336 al 1573, inviò in Cina ad alcuni ceramisti la propria tazza da tè preferita che aveva rotto, perché fosse aggiustata.
DALLE GRAFFE IN FERRO ALL’ORO
Ma le riparazioni erano allora fatte con legature metalliche, graffe in ferro non certo belle dal punto di vista estetico, e Ashikaga Yoshimasa decise di affidare l’oggetto per ritentare la riparazione ad alcuni artigiani giapponesi che, sorpresi da tanta tenacia per cercare di riavere la tazza amata, provarono a riempire le crepe con un sottile strato di lacca che deriva dalla resina di un albero e polvere d’oro, rendendola quasi un gioiello. Una riparazione che seguiva l’estetica del wabi sabi, tecnica che si fonda sull’accettazione della transitorietà e dell’imperfezione delle cose. Ashikaga Yoshimasa ne sarebbe rimasto entusiasta: la sua tazza diventava un oggetto unico.
LA TECNICA KINTSUGI
Così sarebbe nata la tecnica del kintsugi di restauro della ceramica, della porcellana e di oggetti preziosi utilizzando l’oro per saldare i frammenti di vasi: il termine significa infatti “riparare con l’oro”, dall’unione di due parole, “kin” che vuol dire “oro”, e “tsugi”, “ricongiunzione”, “riparare”. “riunire”. E se del racconto attorno allo shogun e alla sua tazza da tè non esistono documenti scritti, ma solo una versione orale, negli anni a venire sono tanti gli aneddoti che si legano a questa pratica, che è una vera e propria filosofia di origine giapponese, diventata metafora del concetto di resilienza, ma anche della capacità di dimenticare le preoccupazioni, liberando la mente dalla ricerca della perfezione, della consapevolezza del fatto che ogni esistenza è destinata a finire e bisogna accettarlo serenamente, ma anche dell’entrare in empatia con gli oggetti, ammirandone la bellezza proprio perché se ne apprezza la decadenza. Non nascondendo, ma lasciando in evidenza le crepe, pur segnandole in oro, l’oggetto aumenta di valore. L’obiettivo infatti non è nascondere il danno, ma sottolinearlo incorporandolo in una nuova estetica dell’oggetto riparato.
UN ALTRO RACCONTO
Un altro racconto legato a ceramiche rotte e riparate con il kintsugi si legano anche alla cerimonia del tè: uno riguarda il maestro Sen No Rikyū, vissuto tra il 1522 e il 1591 che, invitato da un ricco signore che voleva mostrargli un prezioso vaso da tè di forma e qualità splendide, ignorò il pezzo forse perché pensava che intorno alla stanza del tè tutto dovesse essere semplice. Quando il maestro se ne andò. Il ricco signore, deluso, scagliò il vaso contro un treppiede, ma alcuni ospiti raccolsero i cocci e lo fecero riparare. E quando il maestro fu nuovamente invitato, lo trovò “magnifico”.
LA RIPARAZIONE COME BELLEZZA
Questo aneddoto riassumerebbe benissimo il concetto di riparazione come bellezza: la sistemazione con povere d’oro non solo rende infatti gli oggetti opere d’arte, ma in qualche modo sottolinea come la fragilità possa diventare un punto di forza, rendendo la ceramica riparata un intreccio di linee unico, facendo nascere da una ferita una forma maggiore di bellezza. Esteriore e interiore. E anche una nuova storia dell’oggetto che si è rotto. Trasformando appunto le cicatrici in qualcosa di nuovo che acquisisce un valore aggiunto di rinascita che può anche rendere migliori di prima. Oggi, oltre alla lacca dalla resina, possono essere usati come materiale per il collante su cui porre la polvere d’oro farina di riso o di grano o tonoko, una sorta di argilla.
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