
Alla fine del 1927 Charles Augustus Lindbergh era probabilmente l’uomo più famoso del mondo.
A vederlo, incarnava il perfetto eroe americano: nato a Detroit da immigrati svedesi, alto, magro, biondo e riservato. A soli 25 anni era già colonnello della Riserva dell’aviazione e mostrava sul petto la “Legione d’Onore” francese e la “Distinguished Flying Cross”. E per il mondo intero era “The Lone Eagle”, l’Aquila Solitaria.
Pochi mesi prima infatti, alle 7 e 52 del 20 maggio, era decollato dal Roosevelt Field, vicino a New York, con il suo Spirit of Saint Louis per raggiungere Parigi senza scalo. Un’impresa da leggenda, mai riuscita in solitaria a nessuno.
In palio la gloria, ma non solo. Sin dal 1919 il magnate Raymond Orteig aveva promesso 25 mila dollari al primo “Cristoforo Colombo all’incontrario”. E negli anni precedenti ben 27 aerei si erano schiantati o erano precipitati in mare.
Trovati i finanziamenti, Lindbergh aveva messo a punto il suo monoplano. Doveva essere leggerissimo, quindi ali di legno rivestite di tela cerata e senza radio: per orientarsi dovevano bastare bussola, stelle e mappe. In cabina solo la pedaliera, la barra in mezzo alle ginocchia e un periscopio, perché sul muso aveva installato un serbatoio supplementare.
Alle 22 e 24 minuti del 21 maggio, dopo 33 ore e 32 minuti esatti, atterrò stremato a Champ Le Bourget. Ad attenderlo, almeno 150 mila francesi in delirio: per il presidente Coolidge aveva raggiunto “il più grande trionfo di ogni cittadino americano”. E il settimanale «Time» lo nominò “Man of the Year”.
Insomma, nel 1927 Lindbergh era un eroe destinato a una fama immortale. Ma la Storia riserva talvolta sorprese amare.
Non pochi furono infatti i momenti oscuri della sua vita, a cominciare dalle 21 e 30 del 1° marzo del 1932, quando il figlio Charles di appena venti mesi fu rapito dalla culla, mentre “Lindy” era al primo piano e la moglie Anne in bagno. Il rapimento fu seguito morbosamente dai media.
Il riscatto – 50 mila dollari – fu pagato, ma il corpo del bambino venne ritrovato vicino a casa con il cranio fracassato. Tempo dopo la polizia catturò il carpentiere Bruno Hauptmann che urlò la sua innocenza fino al 3 aprile 1936, quando finì sulla sedia elettrica.
Tuttavia qualcosa non tornava: troppe le circostanze poco chiare e molte le voci, anche terribili, sulle responsabilità di Charles.
Comunque, per trovare un po’ di pace i Lindbergh si trasferirono in Europa, e l’Aquila Solitaria si invaghì del nazismo: a suo parere – così scrisse – Adolf Hitler era “un grand’uomo”.
Nel 1938 Hermann Göring lo decorò addirittura con la Croce dell’Ordine dell’Aquila, un medaglione con quattro svastiche intorno. Tornato in America nel 1939, espresse la sua concezione razziale della civiltà con articoli a dir poco discutibili: sul «Reader’s Digest» ne pubblicò uno dal significativo titolo “Aviazione, geografia e razza”. Sosteneva di non “avercela con gli ebrei”, ma li accusava di rovinare gli Stati Uniti, mentre la moglie Anne pubblicò nel 1940 “The Way to the Future”, un libro certamente vicino al nazismo.
Non solo: Lindbergh appoggiò convinto “America First”, il comitato contrario all’intervento in guerra, isolazionista, suprematista e ostile al presidente Roosevelt. Qualcuno ventilò la sua candidatura alle elezioni del 1940. Non se ne fece niente, ma chissà cosa sarebbe successo.
Il grande Philip Roth lo ha immaginato in un romanzo straordinario, “Il complotto contro l’America”: l’antisemita Lindbergh presidente, e gli Stati Uniti quasi alleati dei nazisti.
Nella realtà, invece, dopo Pearl Harbor Lindbergh apparve d’un tratto come un disfattista, quasi un nemico dell’America, troppo impegnato a sproloquiare su questioni più grandi di lui. Tentò allora di riscattarsi partecipando ad alcune missioni sul Pacifico.
Finita la guerra pubblicò la sua autobiografia, “The Spirit of St. Louis”, e vinse il premio Pulitzer. Ma era tardi: nei cuori degli americani l’Aquila Solitaria aveva ormai smesso di volare da tanto tempo.
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