IL FISCHIETTO
Minelli, storia di un arbitro deluso: «Mi hanno tolto la passione»
L’arbitro varesino racconta i perché della decisione più amara
È raro che si scelga di abbandonare la propria passione di una vita. Specie nello sport, laddove infortuni e avanzare dell’età sono i nemici principali. Eppure a volte a venire meno è la gioia di scendere in campo tutte le settimane perché a prevalere è l’amarezza per un ambiente che ha regalato troppe delusioni. A maggior ragione per un arbitro, che fonda il proprio mestiere sull’etica. È il caso di Daniele Minelli, 43 anni di Casciago, figlio di una tradizione varesina di giacchette nere impressa nella storia del calcio italiano. Da quest’estate Minelli non fa più l’arbitro, ha deciso di lasciare definitivamente dopo gli ultimi difficili anni nei quali è stato vittima di comportamenti altrui che lo hanno portato a prendere la decisione più dolorosa, quella di appendere il fischietto al chiodo. Durissima per lui, cresciuto nell’ammirazione di grandi arbitri come Collina e Farina: «Ho sempre amato il calcio - racconta - ma non ero molto bravo come giocatore. In che ruolo? Panchina (ride, ndr)… Ma scherzi a parte, mi ha sempre affascinato la figura del direttore di gara, ammirando l’autorevolezza in particolare del compianto Farina che poi ho avuto la fortuna di avere come designatore. E così, appena ho avuto l’età minima, nel 1997, ho frequentato il corso».
Una carriera veloce, tanto che nel 2009 il suo passaggio in Serie C pareva una certezza. E invece… Cosa accadde?
«Ero in graduatoria ma coincidenza volle che quell’anno ci furono le elezioni alla presidenza dell’AIA. Vinse Marcello Nicchi, la Lombardia aveva appoggiato lo sfidante e per la prima volta non ebbe promossi dalla Serie D. A farne le spese, insomma, fui io. A pensar male si fa peccato… Tanto che volevo dare le dimissioni avendo vissuto sulla mia pelle certe logiche. Per fortuna fui convinto a proseguire e l’anno dopo venni finalmente promosso come primo in graduatoria nazionale».
Poi, nel 2013 il debutto in Serie B e il 9 aprile 2014 la prima in Serie A, Atalanta-Verona. Si può pensare a una festa e invece…
«A ripensarci ancora oggi mi viene una rabbia incredibile anche se dicono che le situazioni difficili sono quelle che ti fortificano. Dopo quasi 150 partite (4 anche in Serie A) nel settembre 2020 mi sono trovato a essere dismesso dall’organico insieme al collega Baroni. Fu una decisione che ci lasciò di stucco perché a dover lasciare sarebbero dovuti essere altri arbitri».
E così vi venne il dubbio…
«Abbiamo approfondito ed è saltato fuori lo scandalo che sappiamo, voti falsificati per favorire certi arbitri piuttosto che altri, verbali altrettanto falsi, graduatorie artefatte e così via. Ma, nonostante ben tre ricorsi con prove schiaccianti, la Giustizia Sportiva decise di archiviare tutto. Perso per perso, ci siamo rivolti alla giustizia ordinaria e a quel punto siamo stati magicamente reintegrati…».
Era il luglio del 2021. Una scelta più di immagine che altro?
«Arrivata dopo 10 mesi d’inferno. Era il modo perfetto per farci stare tranquilli ma in realtà non mi sono state date tante chance come era prevedibile avendo sfidato il sistema. Quando diressi Verona-Udinese, il 3 ottobre 2022, ebbi quasi il massimo della valutazione ma da quel giorno la Serie A non l’ho più vista, nonostante il designatore mi disse che ne avrei fatta subito un’altra… Ed è questo il mio rammarico più grande, non aver avuto modo di dimostrare se valevo o no quel livello. Ma almeno mi sono tolto la soddisfazione di essere riuscito a dimostrare, con i fatti, che quello che si mormorava a parole era vero, cioè che c’era un sistema che a conti fatti, alla lunga, ha sabotato la qualità della classe arbitrale».
È questa la sua spiegazione delle tante polemiche del presente?
«Penso che i risultati di una certa gestione si vedano oggi ed era inevitabile viste le dinamiche che sono emerse nelle quali la politica associativa, a discapito della tecnica e della meritocrazia, la fa da padrona. La scorsa stagione è stata a dir poco negativa e ora, dopo appena sette giornate, è già successo di tutto…».
Ci si augurava che il Var risolvesse tanti problemi e invece sembra averli accentuati.
«Il Var è invece un grande aiuto per correggere quegli errori umani che possono succedere a tutti, quelli che poi quando condizionano una partita, ti fanno provare un’autentica sofferenza personale. Purtroppo il problema è la confusione sulle indicazioni spesso incongruenti e/o poco chiare che vengono date agli arbitri e ai varisti e che creano i patatrac che si vedono settimanalmente».
Il tifoso pensa subito a favoritismi per una squadra o per l’altra.
«Questo lo escludo con assoluta certezza. In 12 anni in quell’ambiente non ho mai avuto neanche la sensazione di questo. Il problema è che anche dal punto di vista psicologico è sempre più difficile arbitrare come si deve. Non solo la partita in sé ti aumenta le pressioni, ma anche tutto il contesto di lotte interne all’associazione che di certo non aiuta».
Intende la pressione della stampa? «No, a quelle ci si è abituati. Della classe arbitrale interessa poco se non quando ci sono gli errori che scatenano le polemiche. In realtà bisogna conoscere come funzionano le cose al loro interno e quanto la serenità di un arbitro possa influire sulla qualità del suo lavoro. L’A.I.A. è molto strana, ci mette anni a formare arbitri di vertice e poi si permette il lusso di perderli una volta che finiscono la loro attività sul campo invece di poter utilizzare la loro esperienza per la formazione dei giovani arbitri. Faccio un esempio, ma potrei farne tantissimi di cose che andrebbero assolutamente cambiate: non è facile veder giudicato il tuo lavoro, magari in un derby o in una finale, da un osservatore che è un ex arbitro che al massimo ha arbitrato in Serie D, senza voler assolutamente denigrare chi magari non è arrivato a certi livelli, sia ben chiaro. È come mandare a dare i voti all’università un insegnante delle medie. Per fare l’arbitro a un certo livello, arriva un momento in cui devi scegliere fra il tuo lavoro e questa carriera. La quale però a 45 anni, nella migliore delle ipotesi, si conclude senza che tu abbia alcuna tutela pensionistica, Tfr e così via. Non è quindi facile vedersi penalizzati da giudizi che possono condizionare la tua vita da persone che non sanno cosa significa arbitrare un evento del genere. Non lo so io che pure qualche partita in Serie A l’ho diretta…».
Il professionismo migliorerebbe le cose?
«Andrebbero allo stesso modo se le persone che gestiscono sono le stesse che hanno una mentalità legata ancora a certe logiche. Però sicuramente sistemerebbe un altro aspetto molto importante di questa attività e che sicuramente influisce sulla serenità degli arbitri. Non è possibile che oggi esista una legge che riconosce la figura professionale dell’arbitro, ma a tutti gli effetti questa non sia messa in pratica dalla Federazione. Gli impegni che si hanno non ti permettono di portare avanti in parallelo un’attività lavorativa che ti faccia essere sereno una volta che la carriera arbitrale finisce. Fortunatamente ora è nato un sindacato degli arbitri che si sta battendo per ciò che avrebbero dovuto già fare i dirigenti dell’AIA da anni, ma che invece….».
E quindi al nostro Andrea Calzavara, appena promosso nella CAN di A e B, cosa diciamo?
«Andrea è bravissimo, siamo cresciuti insieme, si allenava sempre con me e ha meritato questo traguardo, (anche se ora per lui è di nuovo un punto di partenza) perché, soprattutto, ci è arrivato con le sue gambe e credo che la consapevolezza di avercela fatta da solo pur tra tante difficoltà che sei riuscito a superare, sia la più grande soddisfazione che uno sportivo possa avere».
Va bene, ma, prendendola più larga, consiglierebbe a un giovane di fare l’arbitro?
«Ora che sono fuori, per quanto riguarda l’attività pura, quella sul campo, assolutamente sì perché ti forma sotto tutti gli aspetti. Sotto l’aspetto associativo però, in quello che dovrebbe essere il massimo livello, stendiamo un velo pietoso».
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