3 GENNAIO 1954
Arriva la TV: l'Italia davanti allo schermo

Domenica 3 gennaio 1954, ore 11. Dagli studi di Milano Fulvia Colombo, in elegante abito da sera, annunciò: «La Rai, Radiotelevisione italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive».
Era arrivata la Tv: quel giorno, sull’unico canale, il Programma Nazionale poi Rai1 andarono in onda alle 17 e 30 il film di Mario Soldati Le miserie del signor Travet, alle 19 Le avventure dell’arte: G. B. Tiepolo, alle 20 e 45 il telegiornale, alle 21 e 45 L’Osteria della Posta di Carlo Goldoni e, alle 23 e 15, La domenica sportiva.
Le sperimentazioni duravano da prima della guerra: poi, nel 1952, lo Stato aveva firmato una convenzione che assegnava alla stessa Rai il monopolio esclusivo del servizio.
Una nuova epoca della storia italiana cominciava, ma non tutti erano entusiasti, anzi. La Rai era controllata dal governo, cioè dalla Democrazia cristiana, così i comunisti la considerarono uno strumento della propaganda nemica e tentarono senza successo di proibire alle Case del Popolo di acquistare televisori.
Anche papa Pio XII, però, appariva preoccupato. Già il 1° gennaio aveva indirizzato una esortazione all’episcopato: certo, la tv poteva costituire un mezzo efficace di saggia e cristiana educazione, ma allo stesso tempo non era scevra da pericoli per gli abusi e per le profanazioni a cui potrebbe essere condotta dalla debolezza e dalla malizia umana.
Il mondo della cultura si divise tra gli apocalittici e gli integrati: per fare un solo esempio su «La Stampa» Paolo Monelli già vedeva in futuro “una società di analfabeti, di conformisti” in cui l’intelligenza cederà il posto all’istinto, i sensi si ottunderanno.
Insomma, la tv si presentava come un subdolo strumento di dittatura nel campo dello spirito e della coscienza.
Secondo Vittorio Gorresio, invece, la Tv era una potente macchina da voti ma, come in America, poteva formare un senso di partecipazione più diffusa e più cosciente delle masse alla vita politica.
Preoccupazioni condivise dai vertici: il direttore generale Filiberto Guala emanò alcune Norme di autodisciplina per cui tra l’altro non era consentita la rappresentazione di vicende che possono turbare la pace sociale, di opere che portino discredito o insidia all’istituto della famiglia o che risultassero truci e ripugnanti. Al contrario, si doveva avere particolare riguardo” per la santità del vincolo matrimoniale.
Così molti autori anche classici furono esclusi e il vocabolario venne – per così dire spurgato: alcune parole furono considerate impronunciabili, come amante; altre invece, pur innocenti, si prestavano a doppi sensi, così si doveva dire pugno e non cazzotto, dannosa e non malefica e, invece di amplesso, sembrò più opportuno usare la bizzarra espansione sentimentale.
Ma a parte queste pruderiela Rai non fu solo bigottismo e integralismo religioso, anzi: unificò l’Italia nel linguaggio, impresse gusti e costumi simili, modificò abitudini arcaiche e introdusse nuovi modi di vivere e di vedere la vita dal Veneto alla Sicilia, dalla Lombardia alla Puglia.
La Tv traghettò il Paese verso un modello di società Occidentale moderna e industriale, perché alla logica commerciale riuscì ad affiancare intenti pedagogici: Non è mai troppo tardi, la trasmissione del maestro Alberto Manzi, insegnò ad esempio agli analfabeti i rudimenti della scrittura ed ebbe un successo enorme, mentre Carosello abituò il Paese a pensare in maniera positiva al consumismo e alla pubblicità.
Poi, con gli anni e l’avvento della Tv privata, le critiche si fecero più pesanti, soprattutto per l’enorme influenza sull’opinione pubblica e le sue ricadute sulla “qualità” della democrazia e sulle elezioni.
Secondo Karl Popper la Tv era una cattiva maestra, e Giovanni Sartori denunciò la nascita dell’Homo videns: la parola era sostituita dall’immagine e il vedere prevaleva sul comprendere.
Certo, tutto vero: ma se i programmi sono deboli e l’informazione scadente, la responsabilità non ricade sul mezzo, ma sugli uomini.
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