DIRITTI CIVILI
Hollywood ha capito Sidney Poitier?

«Papà, io ti voglio bene e te ne vorrò sempre, ma tu ti consideri ancora un uomo di colore. Io mi considero un uomo». La forza di queste parole è rimasta inalterata se è vero com’è vero che un film come Indovina chi viene a cena?, ancora oggi passa costantemente in televisione ed è patrimonio anche delle generazioni attuali.
A pronunciarle è Sidney Poitier, nei panni di John Prentiss, un medico di colore che cerca di convincere il padre di avere tutto il diritto di sposare la sua compagna bianca.
All’epoca del film, nel 1968, la problematica non era banale. Non solo in 17 stati americani, come ricorda il signor Prentiss al figlio, quell’atto di amore sarebbe stato addirittura un reato ma, in più, tanti neri di allora soffrivano di quella mental slavery (schiavitù mentale) cantata persino da Bob Marley in Redemption songs, ovvero una sorta di complesso d’inferiorità nei confronti del padrone che porta il nero a sentire di “meritare” la schiavitù.
Ma da quel film qualcosa cambiò: il successo e i premi scossero la coscienza americana e, ancora una volta, il cinema seppe dare un contributo culturale importante nella storia dei diritti umani.
Poitier, scomparso a 94 anni, in realtà già prima del film di Stanley Kramer era un simbolo di quelle lotte.
Nel 1964 aveva saputo infatti spezzare un tabù di Hollywood divenendo il primo nero a vincere un Oscar come miglior attore protagonista per la sua interpretazione in I gigli del campo.
Fino ad allora, nelle precedenti 38 edizioni della Notte delle stelle non era mai accaduto che un protagonista non bianco, uomo o donna, vincesse questo premio, anche perché i ruoli da prim’attore per i neri erano quasi inesistenti.
Ecco perché solo in un’altra occasione il premio era stato consegnato a una interprete di colore, ma solo da non protagonista. In quel caso, però, la vergogna fu paradossalmente ancor maggiore.
Hattie McDaniel, la mitica Mamy di Via col vento, costretta a ritirare l’Oscar in una stanza sul retro perché, in quanto afrodiscendente, non era ammessa alla sala delle premiazioni. Fa quindi piacere, in occasione della scomparsa di Poitier, ricordare come da allora di passi avanti ne siano stati fatti parecchi, progresso del quale la stagione dei premi è sempre un buon termometro.
Ma davvero è tutto alle spalle? A un primo sguardo parrebbe di sì, ma andando un po’ in profondità si nota come spesso sono stati premiati film o interpreti poco meritevoli, chiaramente per zittire proprio la comunità nera, da sempre critica sulla discriminazione della Mecca del cinema.
Probabile, ad esempio, quest’anno l’Oscar a Will Smith, assai più convincente in un passato meno ipocrita, per l’interpretazione istrionica ma di maniera del padre delle tenniste Venus e Serena Williams in un film assai mediocre come King Richard - Una famiglia vincente. E così vale la pena riflettere se questo paternalismo non sia in fondo una forma di razzismo ancor più laido e pericoloso perché illude il bianco di essersi lavato la coscienza con un atto pubblico consentendogli però di conservare le proprie convinzioni ben protette nel privato. Siamo sicuri che in questo modo, azzerando la meritocrazia in nome del politically correct, si faccia un buon servizio alla causa?
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