STORIA
La domenica di sangue in Irlanda del Nord

Derry, Irlanda del Nord, 30 gennaio 1972, ore 15 e 55. Bernard McGuigan riesce a rifugiarsi all’estremità del Blocco 1 dei palazzi popolari di Rossville Flats.
Piovono proiettili, ma vede Patrick Doherty, colpito alle spalle e ferito gravemente, invocare aiuto nello spiazzo di fronte a lui. Bernard prende un fazzoletto bianco, lo sventola e si incammina verso l’uomo per soccorrerlo. Ma dopo pochi passi stramazza a terra e il sangue inizia a sgorgare da un foro sopra il suo occhio destro. Un colpo preciso, voluto. Quasi un’esecuzione.
La manifestazione pacifica si è trasformata in una mattanza: è il Sunday Bloody Sunday che i ragazzi di mezzo mondo cantano dal 1983, sulle note della struggente canzone di «speranza e di pace», come disse poi Bono.
Soprattutto, questa è l’Irlanda del Nord, le «Sei Contee» rimaste alla Gran Bretagna nel 1922, quando la Repubblica d’Irlanda ha ottenuto l’indipendenza. Qui vivono separati in casa circa un milione di protestanti filo-britannici fedeli alla Regina e mezzo milione di cattolici repubblicani, che vogliono unirsi con il resto dell’isola.
In realtà, la questione non è solo geografica o religiosa, bensì sociale e politica.
I cattolici sono discriminati, e con gli anni Sessanta la violenza è cresciuta inesorabilmente: da una parte i gruppi paramilitari protestanti come l’Uvf (Ulster Volunteer Force) e l’Uda (Ulster Defence Association), dall’altra l’Ira (Irish Republican Army), a sua volta divisa tra l’Official Ira, più aperta a soluzioni politiche, e l’Ira Provisional, votata alla lotta armata senza tregua. Insomma, la vita civile in Irlanda del Nord è un inferno: tra scontri di piazza, sparatorie, attentati e vittime, sembra una guerra civile e i tentativi del governo per reprimere i disordini hanno portato a provvedimenti sempre più iniqui e contestati.
Tra questi, la legge sull’Internamento del 9 agosto 1971: la polizia può arrestare e incarcerare per un tempo illimitato chiunque sia solo sospettato di appartenere all’Ira. Naturalmente, tutto senza processo e con un trattamento che sconfina nella tortura: i detenuti vengono pestati, rimangono incappucciati senza cibo né acqua e senza poter dormire, a gambe larghe contro il muro in punta di piedi per ore.
Così, oltre alle violenze, anche le manifestazioni pacifiche di protesta si susseguono: come quella del 30 gennaio, organizzata dalla Nicra, l’Associazione per i diritti civili.
È domenica, e alle 15 e 55, almeno 10 mila persone stanno marciando. Sono disarmate, arrivano a William Street. Di fronte si trovano il Primo Battaglione del Reggimento Paracadutisti britannici, dietro una barricata, con le armi puntate. I loro ordini sono chiari: devono disperdere la folla.
Qualcuno lancia dei sassi e tutto precipita: lacrimogeni, idranti, autoblindo. Scoppia il caos. I parà sparano anche e sui ragazzi: il primo è Jackie Duddy, 17 anni, colpito alla schiena mentre scappa. Poi altri, tra cui Bernard McGuigan e Patrick Doherty. Alla fine i morti sono 14, in nemmeno 15 minuti: otto hanno meno di vent’anni. Una vergogna per uno Stato democratico e l’eco rimbalza nel mondo.
La prima Commissione di inchiesta inizia a lavorare pochi giorni dopo. Interroga i parà, tutto a posto: si sono difesi da manifestanti armati, rischiavano la vita.
Ma i testimoni e i giornalisti smentiscono il governo: escono libri e articoli che parlano di insabbiamento. Così nel 2010 una nuova inchiesta, dopo dodici anni di lavoro, giunge alla verità: nessuna arma, i manifestanti erano pacifici, i parà spararono per uccidere.
E, alla fine, il primo ministro David Cameron ammise pubblicamente: il fatto fu «ingiustificato e ingiustificabile», il governo era «responsabile» e si scusava, una volta per tutte, con i familiari e le vittime.
Nel 2003, obbligato a testimoniare ma coperto dall’anonimato, al soldato F” fu chiesto dall’accusa: «Lei concorda con me sul fatto che un uomo che uccide un ragazzo di 17 anni disarmato è un vigliacco?». Risposta: «non tocca a me dirlo». Si sbagliava, toccava proprio a lui.
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