Oltre - La nuova vita delle pellicole

«Questo è il macero delle pellicole, qui muoiono i film. Veramente è più esatto dire «li uccidono». Pochi sanno che dopo una rapidissima carriera di successi e un po’ di insuccessi, una fine inesorabile attende tutte le pellicole cinematografiche». Inizia così il film di Luigi Comencini La valigia dei sogni girato nel 1953 nei capannoni della Benigno Marcora a Olgiate Olona. Tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del secolo scorso l’azienda è stata l’unica al mondo a occuparsi dello smaltimento del prezioso nastro, una volta contesissimo dalle sale di proiezione.
«Qui le opere del cinema si valutano a peso», prosegue Comencini. Alla «Benigno Marcora», la pellicola veniva «lavata» con un procedimento messo a punto dall’azienda grazie al quale si ottenevano due materiali molto preziosi: la celluloide, uscita candida e trasparente dal lavaggio, e il bisolfuro di argento, cioè i neri cristalli fotosensibili con cui veniva impressa la pellicola in bianco e nero. La prima tornava materia prima, instabile e delicata, per essere riutilizzata per creare oggetti, vernici e per gli accessori per la produzione delle calzature dell’epoca come puntali e terminali dei lacci, mentre il bisolfuro d’argento, inizialmente recuperato sotto forma di una fanghiglia nera, veniva lasciato essiccare e poi venduto ai commercianti di metalli preziosi di Milano, all’epoca di origini ebraiche, che ne ricavavano argento allo stato puro. La scoperta di questo business era avvenuta per caso: Pasquale Marcora, padre di Benigno, fondatore dell’azienda, riciclava rottami ferrosi. Alla fine della Prima guerra mondiale ritirò una partita di maschere antigas e, per recuperare agevolmente l’alluminio che ne costituiva alcune parti, provò a bruciarle in un altoforno. Ci fu una violenta esplosione, causata delle lenti, composte di celluloide, materiale altamente infiammabile e che durante la combustione sprigiona rapidamente un gran volume di gas ad alta temperatura (nella scala di pericolosità dei Vigili del Fuoco viene subito prima della dinamite). Tanto che in seguito Benigno provò con numerose compagnie a stipulare un’assicurazione ad hoc contro gli incendi, ma anche i celebri Lloyd di Londra si rifiutarono. Per evitare gravi danni, i capannoni dell’azienda, già allora, erano stati costruiti come le polveriere dell’esercito, a blocchi, per arginare eventuali incendi. Vietatissimo fumare, pena il licenziamento in tronco. Nonostante le precauzioni l’azienda bruciò completamente due volte e fu ricostruita dal titolare. Dal centro di Busto la sede fu poi spostata a Olgiate Olona, in mezzo alla campagna.
Benigno Marcora andava periodicamente da Busto Arsizio alla Stazione Centrale a Milano, con la sua valigetta colma di fogli con indirizzi e conti, per le telefonate intercontinentali. Per controllare i costi delle chiamate, allora carissime, utilizzava un contatore meccanico della Zenith calibrato sugli scatti telefonici. Telefonava negli Stati Uniti per organizzare le spedizioni di pellicole cinematografiche che arrivavano in Italia trasportate da grandi navi mercantili. I camion andavano e venivano tutto il giorno dallo stabilimento. Il materiale riciclato era così ricercato che non servivano agenti di vendita, ma solo agenti internazionali per l’acquisto della preziosa pellicola da tutto il mondo. Così racconta il nipote di Benigno, Riccardo Marcora, intervenuto al workshop tenutosi al Museo MA*GA di Gallarate, alla presenza degli studenti del Liceo Artistico Candiani di Busto Arsizio.
Arrivavano alla «Benigno Marcora» milioni di metri di pellicola, non solo i film che giravano per le sale (la pellicola più lunga che è passata tra le mani degli operai della Marcora è Quo Vadis), ma anche pellicole girate durante la lavorazione di un film e tutti i cinegiornali che, dopo una settimana nelle sale cinematografiche, erano già considerati vecchi. Le pizze venivano distrutte con un colpo d’accetta alla presenza di un notaio, per renderle inutilizzabili. Qualcuno tentava di salvare spezzoni di film, alcuni andavano alla ricerca di frammenti tagliati dalla censura che l’azienda aveva l’obbligo contrattuale di distruggere. Molti recuperavano i ritratti di attrici famose, altri dei nudi occasionali, o figure femminili in reggicalze.
Così ha fatto il protagonista del film di Comencini, Marco Ferrari, che ha dedicato l’intera esistenza alla conservazione di film muti, recandosi clandestinamente in questa azienda del macero per recuperare qualche spezzone di pellicola, prima che il film venisse «cancellato» e la materia prima acquisisse nuova vita. Una lavorazione che nasce e muore con i Marcora: con l’introduzione del film a colori, il bisolfuro di argento è diminuito e anche il supporto è cambiato, relegando la celluloide ad applicazioni di nicchia nell’oggettistica di lusso.
Al nipote di Benigno, Riccardo, il compito di conservare e tramandare le memorie di famiglia di un pezzo di storia industriale unico, immortalato nelle immagini del regista Luigi Comencini, che ancora appassionano e ispirano giovani artisti e studenti.
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