27 GENNAIO 1945
La storia di Yakov Vincenko

Poco dopo la mezzanotte di sabato 27 gennaio 1945 il soldato Yakov Vincenko fu svegliato. L’ordine: la Divisione di fanteria 322 doveva avanzare, far arretrare i tedeschi.
Yakov, 19 anni, era stato arruolato quattro anni prima: gli avevano messo in spalla una baionetta del 1891 e riempito le tasche di granate. La guerra gli aveva rubato la giovinezza: «giochi, sogni, progetti sono crollati in un giorno», raccontò anni dopo ma, con l’Unione Sovietica invasa da Hitler, tutti dovevano combattere.
Un’armata di bambini: Yakov aveva sparato il primo colpo a 16 anni, sul fronte ucraino, e venti mesi prima era anche stato ferito nella battaglia di Kursk.
Poi, l’assedio di Leningrado e quello di Stalingrado, fino alla svolta decisiva: almeno venti milioni di morti ma l’Armata Rossa, con un crescendo di vittorie travolgenti, aveva cacciato la Wehrmacht dalla Russia e riconquistato i Paesi baltici.
Da novembre si combatteva ormai in Europa centrale. Erano nel sud della Polonia, a 60 km da Cracovia: «i generali ci dissero che se riuscivamo a sopravvivere ancora pochi mesi saremmo tornati a casa».
La guerra stava- forse- per finire ma quando fu svegliato, quel 27 gennaio, i tedeschi non mollavano ancora: la notte prima erano morti centinaia di carristi e fucilieri cercando di costruire ponti di legno sulle acque gelide della Vistola.
Così anche quella notte Yakov avanzò, nel buio. Gli parve di vedere un’ombra: «strisciava nel fango, davanti a me. Si voltò e apparve il bianco di occhi enormi, dilatati».
Non stava sognando: era un morto vivente. Vincenko proseguì e, tra la nebbia, intravide altri fantasmi: «ossa mobili, tenute assieme da pelle secca ed invecchiata».
Alle 5 di mattina superò il primo reticolato di filo spinato. Aveva paura dei cecchini tedeschi. Si riparò dietro un bidone e vide il maggiore Shapiro, un ebreo russo del gruppo di assalto, spalancare un grande cancello con la scritta Arbeit Macht Frei (Il lavoro rende liberi).
Dietro le sbarre alcuni vecchi sorrisero. Ma non erano anziani: erano bambini in condizioni pietose. Nel frattempo l’aria diventava irrespirabile: «c’era una puzza asfissiante, l’odore dolciastro e acre della morte», un misto di carne bruciata e di escrementi.
Si alzò e guardò nel bidone: «era colmo di cenere, emergevano frammenti di ossa. Non ho capito che erano resti di chi era stato là dentro». Yakov non lo sapeva ma era entrato ad Auschwitz: 40 km quadrati occupati da 39 campi di lavoro, detenzione e sterminio. Costruito per volere di Heinrich Himmler nel 1940, solo lì erano state uccise almeno 1 milione e 100 mila persone, anche 5000 al giorno. In quel momento ne rimanevano 17 mila: ebrei, zingari, omosessuali di tutte le nazionalità.
Proseguì, senza dire una parola, tra «scheletri accovacciati nella melma gelata. Non parlavano, mi seguivano con sguardi di terrore». Poi entrò in alcune baracche: bambini, donne, vecchi, malati stesi immobili, assi coperte di escrementi. I tedeschi non avevano fatto in tempo ad ammazzarli tutti, a nascondere la loro vergogna.
Vincenko non capiva, ma- commentò anni dopo- «era chiaro che su Auschwitz incombeva qualcosa di terribile: ci chiedevamo a cosa fossero servite centinaia di baracche, quelle ciminiere, certe stanze con le docce che emanavano un aroma strano. Pensai a qualche migliaio di morti, non allo Zyklon B e alla fine dell’umanità».
Noi oggi lo sappiamo: Yakov aveva varcato un confine da cui non si poteva più tornare indietro. Era giovane, Vincenko, e infatti- aggiunse- «quando ero lì ho cercato di convincermi che non fosse vero». Poi sperò «di riuscire a dimenticare». Ma col tempo capì che tacere «sarebbe stato comportarsi da colpevole, diventare complice».
Da decenni, allora, Yakov Vincenko racconta quel giorno. E non è facile, se lo storico Dan Diner ha definito la Shoah «una terra di nessuno della comprensione, un vuoto di significato extrastorico».
Ma, come sosteneva Aldous Huxley, «i fatti non cessano di esistere nemmeno se vengono ignorati»: anche per questo il 27 gennaio è il Giorno della Memoria.
© Riproduzione Riservata