L’INTERVISTA
Un angolo di Oriente da Busto Arsizio

Davide Quadrio (Busto Arsizio, 1970) è da un anno il direttore del Mao, Museo d’arte orientale, allestito all’interno dello storico Palazzo Mazzonis di Torino una delle più importanti istituzioni culturali italiane dedicata alla cultura dell’estremo Oriente. Vi giunge dopo un’esperienza quasi trentennale in Asia, soprattutto a Shanghai, iniziata da studente universitario e proseguita, mettiamola così, come “agitatore culturale”: è tra i fondatori dell’ArtBiz Center che per un ventennio è stato un laboratorio di pratiche artistiche, che chi scrive può testimoniare aver lasciato il segno almeno nell’ambiente artistico della città (esperienza terminata nel 2010).
COME NASCE QUESTO INTERESSE PER LA CULTURA ORIENTALE?
«Ero attratto dalle iconografie indiana e tibetana; al liceo pensavo che avrei studiato storia dell’arte asiatica e che sarei andato a vivere in Cina; era come se fossi, in un certo senso, predestinato. Ho quindi studiato cinese a Venezia. Il secondo anno d’università l’ho passato a Shanghai e poi mi ci sono stanziato per 25 anni, più 3 anni a Bangkok».
DI QUESTE ESPERIENZE GIOVANILI COSA RITIENE?
«Essere in Cina negli anni Novanta era un dono: la Cina si stava aprendo ma era ancora un luogo inesplorato, offriva una serie di viaggi che tuttora popolano i miei ricordi. Mi è rimasta proprio la passione per quei luoghi. Al Mao porto le mie due anime: la storia dell’arte che ho studiato e la meraviglia dell’arte e della Cina contemporanee che entra nel museo in una maniera “necessaria”».
L’ASIA È UN CONTINENTE IMMENSO CON UNA CULTURA PROFONDISSIMA MA ANCHE MOLTO DIFFERENTE DALLA NOSTRA. CHE DONO PUÒ ARRIVARE ALL’ITALIA DI OGGI DA QUELLA CIVILTÀ?
«Questi mondi offrono un meraviglioso materiale che si riflette nelle collezioni del MAO. L’Asia orientale ha tantissimo da insegnare ma soprattutto deve esistere al di là di esotismi semplificativi. La generalizzazione rispetto alla Cina, per esempio, è particolarmente disturbante: tutto diventa politico e non culturale. Invece quelle culture possono portare molto in Occidente in termini di contenuti e di interpretazioni postmoderne del passaggio globale dell’arte e della produzione artistica».
SBAGLIO SE DICO CHE LA VISIONE ENTRO LA QUALE SI MUOVE È QUELLA DI MOSTRARE LA COMPLESSITÀ DI QUESTI MONDI COSÌ DISTINTI MA NON ALIENI?
«No. Il museo è un progetto costituito dal materiale, non solo artistico ma anche di oggetti rituali con funzioni specifiche che devono essere attivate attraverso ritualità o preghiera oppure posizionandoli nello spazio e nel tempo. Noi dunque prendiamo questo materiale, lo interpretiamo costruendo narrazioni alternative per coglierne la complessità ma anche, come diceva giustamente lei, la comunanza.
QUINDI LA FORZA DELLE COLLEZIONI DEL MAO È QUELLA DI POTER PRENDERE UN OGGETTO E FARNE “ESPLODERE” LE POTENZIALITÀ: CONTRADDIZIONI, COMUNANZE… SIGNIFICATI, DISTANZE E VICINANZE?
«Il confronto con il contemporaneo è fondamentale. Questi oggetti attraverso gli occhi di artisti divengono contemporanei perché vengono letti da occhi del presente… Benedetto Croce ce lo ha insegnato… »
Da qui il suo invito ad artisti e studiosi per delle lunghe residenze. A costoro chiederà esplicitamente di far esplodere questa complessità delle collezioni o li lascerà liberi nell’approccio?
«Gli artisti lavorano all’interno di framework; intervengono dunque come interpreti di un dialogo tutto centrato sulla collezione».
IMPIEGA SPESSO IL TERMINE “CONTEMPORANEO”. PERCIÒ LA CONTEMPORANEITÀ È...
«Non l’arte contemporanea. Il “contemporaneo” è proprio affrontare delle tematiche dell’oggi attraverso la storia che le collezioni rappresentano. Riportare il passato in modo che sia rilevante per il presente. Quindi ‘contemporaneo’ è il come un museo riesce ad interpretare le collezioni e renderle contemporanee…».
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