IL LINGUAGGIO DEI GIOVANI
«Bisogna essere curiosi, non condannare e basta»
L’intervista al musicologo Corrado Greco: «Disobbedire alle regole è creativo»

La musica che i giovani ascoltano e suonano oggi è uno specchio in cui si riflette la loro necessità di comunicare, un veicolo potente per il loro desiderio di esprimersi. Nei testi che accompagnano le loro canzoni si colgono le fasi embrionali di un nuovo linguaggio, un gergo che diventa meccanismo di identificazione e appartenenza. Ne abbiamo parlato con Corrado Greco, musicologo, pianista, professore di Musica da camera al Conservatorio di Milano e professore a contratto all’Università dell’Insubria.
Prof Greco, è vero che il linguaggio dei giovani è più povero di quello delle generazioni passate?
«Per iniziare, non bisogna esprimere giudizi. Gli adulti di ogni generazione tendono a mostrare intolleranza verso ciò che non comprendono. Sicuramente l’accelerazione tumultuosa degli sviluppi tecnologici (internet, social network, le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale) ha causato un disallineamento tra generazioni che rende i nuovi linguaggi ancora più difficili da decifrare, e che può condurre a conclusioni affrettate, come affermare che i giovani non leggono o che il loro linguaggio è incomprensibile. Il primo passo dev’essere la curiosità, non la condanna».
La musica è fatta di note e di parole. Si può fare una distinzione tra registro linguistico e registro musicale?
«Certo. Nelle canzoni i due registri convergono, ma hanno valenza diversa. Oggi noto una grande voglia di sperimentare a livello linguistico. I giovani creano costantemente, disobbediscono alle regole, le reinventano. Il risultato è un nuovo codice, che disorienta gli adulti ma che, allo stesso tempo, è molto creativo. Spesso assistiamo alla nascita in contesti ristretti di parole che, con l’amplificazione dei social, si diffondono rapidamente in una platea vastissima».
Può farci qualche esempio di parole nuove che compaiono nei testi musicali?
«Pensiamo a verbi come “dissare” (insultare), “ghostare” (scomparire dalla vita di qualcuno), “droppare” (condividere qualcosa) o “flexare” (vantarsi e ostentare). Sono espressioni gergali della Generazione Z, quella dei nativi digitali cresciuti a cavallo del millennio, che ascoltano la musica prevalentemente dal cellulare. Si possono chiamare la “generazione Spotify“, dal nome della piattaforma globale che fa sì che nuove musiche e parole rimbalzino tra i continenti e si diffondano a una velocità mai vista in passato».
E dal punto di vista musicale?
«Se la lingua parlata è un’esplosione di neologismi e una palestra di inventiva semantica, nella musica non vedo la stessa originalità. C’è una notevole capacità di ibridazione, quella che una volta chiamavamo contaminazione. I giovani prendono a prestito ritmi e melodie da ogni genere musicale per costruire la “base” su cui veicolare il testo. Spesso, quindi, la musica è solo un mezzo, non il fine. È una musica che riflette la complessità del presente, che tutto divora. Le nuove generazioni, con tecnologie alla portata di tutti, si sono appropriate di tecniche che una volta erano esclusive degli studi di registrazione. Con un’attrezzatura minima, creano musica in casa o in studi improvvisati in garage. Usano tecniche di campionamento, creano loop, comprano in rete basi a poco prezzo su cui provare e riprovare con i testi. In tutto questo io leggo una forte esigenza di espressione di sé. Parliamo di giovani la cui socialità si manifesta non solo nella prossimità fisica, ma anche, e soprattutto, sui social network, e che per non rimanere isolati comunicano principalmente attraverso la tecnologia. Lo spaesamento causato dal Covid ha rappresentato l’apice di questa tendenza».
Molti intellettuali vedono un rischio di omologazione del linguaggio. Lei cosa ne pensa?
«Credo che sia in atto piuttosto un’espansione e una “spaccatura” rispetto al linguaggio tradizionale. Il linguaggio dei giovani non è elegante e non segue le regole tradizionali, ma non lo considererei omologato o povero. In realtà è solo diverso, ma questo iato può generare un conflitto generazionale, che si supera solo abbandonando il giudizio e abbracciando invece la curiosità. Il linguaggio - verbale e musicale - muta e viaggia velocemente. Un brano rap che esce oggi negli Stati Uniti viene ascoltato in tempo reale e imitato in Italia come in Giappone. È un processo globale che in poco tempo può portare a grandi modifiche linguistiche e culturali».
L’Italia ha una sua specificità per quanto riguarda la capacità di fare proprie le tendenze straniere?
«L’Italia, a partire dal secondo dopoguerra, ha costantemente assimilato le tendenze musicali giovanili provenienti dall’estero, integrandole nella propria tradizione e rielaborandole con una propria specificità. Interessante oggi è l’esempio di Ghali, artista che ha nel Dna il linguaggio delle periferie italiane, la tradizione dei genitori nordafricani e il gergo giovanile fatto di parole inglesi storpiate. Questo melting pot culturale e linguistico gli permette di esprimersi su più livelli in modo molto originale».
E il rap e la trap?
«Questi due sottogeneri musicali dell’hip-hop sono laboratori incredibili di creatività linguistica. In un’accezione tutta italiana, gli artisti non si sentono in soggezione a innestare i loro testi anche sul pop o sulla musica melodica, tanto da essere approdati negli ultimi anni anche a Sanremo».
I Maneskin sono dirompenti o vanno nel solco della tradizione?
«Nel loro caso a prevalere è la nostalgia del rock duro degli anni Settanta. La loro non è un’espressione puramente giovanile: l’immagine che danno di sé può sembrare trasgressiva, ma il contenuto musicale è più tradizionale. La forza dei Maneskin sta nella modalità comunicativa travolgente, che è tipica del rock. Nel loro caso, la musica resta più importante del testo».
La musica è un veicolo per esprimere il disagio e le speranze di una generazione. Per concludere, qualcosa sta cambiando o assistiamo a fenomeni già visti, pur con le specificità del presente?
«La musica continua a rappresentare, per tutti, un punto di riferimento fondamentale durante gli anni di formazione. Offre la possibilità di riconoscerci, ci fa sentire meno soli, riesce a veicolare significati che fatichiamo a esprimere a parole. I ragazzi di oggi cercano nella musica la consolazione di sempre, ma lo fanno in modo rabbioso, quasi come fosse l’unico modo per esprimere le loro ansie, i loro dubbi e il loro senso di solitudine. Il nostro compito è essere aperti, evitando di sovrascrivere sui giovani un’immagine di ciò che dovrebbero essere, invece di guardarli per ciò che realmente sono».
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