IL PROCESSO
Busto Arsizio, minacce al fratello. «Riina aiutami tu»
Il rancore nella lite famigliare lo spinse sulle tomba del boss e di Provenzano «per chiedere la grazia». Tensione in aula

Era stato arrestato un anno fa per stalking nei confronti del fratello. Ieri pomeriggio, venerdì 18 ottobre, poco prima di entrare in aula per il processo, poco ci è mancato che lo portassero via. Sono volati insulti tra i due, l’aria sembrava così incandescente che la testimonianza della vittima è stata resa dietro il paravento. Poi, come per magia, sono scese le lacrime a entrambi. Merito delle posizioni sagge degli avvocati Samuele Genoni - difensore dell’imputato - e Concetto Galati - parte civile - o forse del tentativo di conciliazione del giudice Francesca Roncarolo. Sta di fatto che l’allarme è rientrato, ma la contrapposizione no.
«TOTÒ RIINA AIUTAMI»
È una faida che si trascina da un decennio quella dei fratelli giardinieri. Ieri tra i testimoni della guerra familiare è stato citato anche Checco Lattuada, all’epoca dei fatti responsabile della sede locale di un’azienda di manutenzione del verde. Tra novembre 2019 e marzo 2021 l’ex consigliere comunale del Pdl ricevette decine e decine di messaggi denigratori dall’imputato, tutti rivolti contro il dipendente, dipinto come mafioso e pure pedofilo. «Attaccava anche manifesti sulla recinzione della ditta», ha raccontato al giudice.
Ma il cinquantunenne era così ossessionato dal fratello quarantasettenne da andare in pellegrinaggio a Corleone, sulle tombe di Totò Riina e Bernardo Provenzano, per «chiedere una grazia». Si fece un video mentre pregava davanti alle lapidi e lo pubblicò su Youtube: «Visto che in Italia non è garantita la giustizia chiedo aiuto a voi», salmodiava nel filmato.
CONCORRENZA SLEALE
Ma perché tanto rancore? Il cinquantunenne anni prima si era trasferito dalla Sicilia a Cervignano del Friuli per fare il giardiniere. Dopo un po’ si mise in proprio e il fratellino lo raggiunse per lavorare con lui. Ma le differenze caratteriali, o forse la somiglianza dell’indole, portarono presto a tensioni e scontri. Così il quarantasettenne decise di andarsene dall’attività per crearne una sua.
Il cinquantunenne iniziò a sospettare uno storno di clienti, si convinse che il fratello, appoggiato dal resto della famiglia e soprattutto dalla madre, lo avesse danneggiato economicamente e perse la testa. Sicché il quarantasettenne prese moglie e figli e si trasferì a Busto Arsizio, anonima località dove sperava di non essere mai più rintracciato.
Invece l’imputato scovò l’indirizzo e da quel momento, fino all’arresto dell’anno scorso, avrebbe fatto vivere ai parenti anni di terrore.
Minacce di morte, appostamenti, sistematica diffamazione: infilava lettere infamanti nella posta dei vicini, gettava discredito nel suo ambiente professionale (Lattuada ne è testimone), lo infangava sui social e con gli amici. «I miei bambini erano terrorizzati, quando sentivano il citofono andavano a nascondersi, mia moglie cadde in depressione, uno dei miei figli è stato in cura dallo psicologo. Devo ringraziare la polizia e gli assistenti sociali per l’attenzione e l’aiuto che ci hanno dato. Da quando il giudice ha imposto il divieto di avvicinamento le cose vanno un po’ meglio, ma l’angoscia non passa», ha raccontato la vittima. E dovrà ripetere tutto ai tribunali di Palermo, Termini Imerese e Gorizia, perché l’imputato lo ha seguito ovunque.
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