L’ORIGINE
Shojin ryori: a tavola con i monaci e la regola del cinque
I pasti buddisti sono armonici e portatori di benessere. Il piatto cucinato deve essere essenziale, ma non povero
Affascina perché c’è di mezzo il karma. E l’idea di perdere circa quattro chili in una settimana contribuiscono ad alzare la passione la cucina buddista. C’è chi ne resta affascinato per l’ispirazione filosofica, c’è chi la alterna per curiosità. È lo Shojin Ryori, la cucina buddista giapponese. Antica eppure modernissima, letteralmente Sho significa «concentrarsi, migliorarsi», Jin «andare avanti» e la parola ryori è semplicemente cucina: dunque si potrebbe tradurre con la voglia di migliorarsi e progredire attraverso l’alimentazione, la cucina appunto. Ovvero l’atteggiamento tipico dei monaci che si estende anche all’alimentazione nella ricerca dell’illuminazione.
C’è chi accosta con un approccio meno ascetico, per una questione di benessere o allettato dall’idea di quei famosi quattro chili che si arrivano a perdere in una settimana. Si scopre così questa pratica antica, attribuita al monaco Dogen Zenji che ne codificò le regole in un manuale, il Tenzo Kyokun. Qui si trova come cucinare seguendo l’ispirazione monastica purificando tempo e mente, dando istruzioni pratica per le cotture ma persino lo stato d’animo da mantenere affinché i pasti risultassero armonici e soprattutto portatori di benessere. Una pratica antica di cui si sente l’eco nella cucina moderna, soprattutto quando si parla di alta cucina e pasticceria, come se ci fosse un filo rosso che unisce l’arte di nutrirsi.
Per questo di parla di disposizione di animo o meglio cuore quando ci si mette a cucinare. Il cuore deve essere felice preparando i pasti con piacere (ma anche poi rimettendo a posto la cucina). Il cuore deve essere maturo cucinando come se fossi un genitore che nutre il proprio figlio e, non ultimo, il cuore deve essere grande - questo il precetto più complicato per la natura umana - dimostrandosi sempre motivato, indipendentemente dall’umore della giornata o dal pregio delle materie prime utilizzate, e curando nei dettagli la presentazione.
Il piatto è essenziale ma non povero. Siamo di fronte a una cucina è vegana e segue alcuni precetti che la rendono molto moderna, quello di evitare gli sprechi. Quindi ridurre al minimo gli scarti e utilizzando davvero tutto, dunque anche le bucce delle verdure che possono essere riutilizzate per brodi, oppure essere essiccate. Entrando però nell’essenza di questa cucina, è il cosiddetto “sistema del cinque” o “regola del cinque” a definirne le caratteristiche. Il primo punto è legato ai cinque precetti del buddismo, che per chi pratica dovrebbero condurre al Nirvana. Sono: evita di uccidere una vita umana e animale, astieniti dal prendere ciò che non è dato, astieniti dalla cattiva condotta sessuale, astieniti dalla maldicenza e astieniti da sostanze che intossicano ovvero alcol e droghe.
Arrivando alla tavola i piatti devono rispettare i 5 colori che devono essere presenti a ogni pasto: bianco, verde, giallo, scuro (nero) e rosso, i 5 sapori: dolce, acido, salato, amaro e umami (quel sapore forte che tende al dado), i 5 metodi di preparazione: crudo, fritto, bollito, arrosto e cotto a vapore e infine i 5 elementi: terra, acqua, fuoco, vento e aria, energie differenti che secondo la teoria dei Cinque Elementi, sono contenute in forme diverse nei prodotti vegetali. Ora resta da capire cosa si mangia: i piatti sono accompagnati da riso bianco, ora nei ristoranti spuntano le moderne Buddha bowl ovvero verdure di stagione con noci.
In generale ci sono piattini: uno con la zuppa, uno con il riso bianco e tre i verdure marinate nel miso, soia e tofu, anche fritto, in fogli ovvero l’abura-age, la shiro-ae con tofu e salsa di soia e sesamo, la namasu preparata con verdure tagliate a julienne tipo il daikon. Ricordate, anche le dosi sono monastiche. Niente abbuffate.
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