SUL PALCO
Tra silenzio e tuono vince Vecchioni
Sold out per la tappa varesina del tour. Mille spettatori di ogni età applaudono allo stesso ritmo dei battiti del cuore
Un rimando continuo di parole e note, di monologhi spalancati verso il pubblico con una potenza irriverente nei confronti dell’anagrafe.
Un giorno qualcuno riuscirà a capire perché certi artisti come Roberto Vecchioni - il Prof o, per gli amanti dell’enigmistica, il Sergente York - a dispetto della veneranda età escano sempre vincenti dalla sfida estenuante col palcoscenico.
Il dubbio che Infinito non sia solo il suo ultimo disco, riversato in gran parte anche nel concerto varesino di stasera, venerdì 8 novembre (un sold out intergenerazionale dominato dalla presenza non solo fisica delle donne), e neppure il mero omaggio all’amore cantato da Giacomo Leopardi nella Ginestra e reso profumo di straordinaria intensità dal Prof, ma il suo stesso carattere, ovvero il suo destino di cantautore. Destino che proprio in provincia di Varese, a Brebbia, via per Cadrezzate, ebbe inizio nel 1971.
Fu allora che Vecchioni registrò il suo primo album Parabola (quello di Luci a San Siro, eseguita stasera prima di Samarcanda, in chiosa di concerto) negli studi dell’allora Italdisc di Davide Matalon, prima che diventasse Ducale.
Storie di prossimità non solo geografica come ha ricordato lo stesso Vecchioni: «È troppo tempo che manco da Varese».
Vero. Ci manca al Premio Chiara-Le parole della Musica che venne a ritirare il 6 novembre 2016, otto anni esatti or sono. Curioso allora il riferimento-confronto tra Bob Dylan, «Nobel della Letteratura con dodici parole» e Fabrizio De André «che di parole ne conosceva dodicimila, tutte giuste». O Alda Merini - toh, una varesina seppure onoraria - che era poetessa perché gli ha insegnato che la parola «si compie nel momento in cui è pronunciata e sale verso il cielo» senza bisogno d’essere fissata a terra.
Maestri. Sì per diventare professori ne servono e anche di bravi: il primo? Una lei, sua madre Eva Picardi, napoletana del Vomero, quartieri alti: «Mi ha insegnato a fare le cose per bene».
Ma anche il figlio del macellaio sotto casa, che aveva dieci anni e un destino segnato da bottegaio negli Anni Cinquanta: «Gli portavo i libri. Era un lettore eccezionale. Il padre lo sfotteva mettendolo di fronte al suo futuro da macellaio. E lui gli rispondeva: sì ma sarò un macellaio con la cultura»”.
Cultura e arte: chi madre e chi figlia l’una dell’altra? Di certo c’è che viaggiano a braccetto anche su una strada costellata di denigratori, attenti solo a ciò che produce Pil. Inclusi quei politicanti dalla querela facile e dal pensiero banale: «La funzione dell’artista - l’incalza il Prof - è dare un’emozione. Il Pil col cazzo che la dà».
Sorridono i quattro moschettieri che l’accompagnano sul palco: tutti artisti di prim’ordine, da Lucio Violino Fabbri, che dà suono anche a pianoforte e a mandolino, al batterista Roberto Gualdi, dal bassista Antonio Petruzzelli al chitarrista Massimo Germini. Quando un band funziona si dice che ha tiro. Il loro s’addice all’Infinito cantato dal Prof tra silenzio e tuono (titolo del tour).
Ecco Vecchioni, l’equilibrista-guerriero “stanco di manager cazzuti, falchi, jene” che ci consegna quel che gli avanza: un sacco di parole (e note) qui, nella sua stanza fatta teatro.
Ecco lassù, il funambolo “friabile” - ipse dixit confessando anche d’essere svenuto solo due volte in vita sua: davanti alla seconda moglie Daria e dopo aver vinto il Festival di Sanremo del 2011 – mentre ondeggia aggraziato sul filo teso tra Eros e Thanatos. Cioè tra l’Amore, ciò che non muore, e la morte, ciò che finisce, come la Venezia di Thomas Mann negli occhi del protagonista Aschenbach e ciò che ricomincia solo un passo più in là, come Arthur Rimbaud avrebbe desiderato, come Vincent Van Gogh pennellò a colpi rossi e gialli («per dire aspetta»).
E fors’anche come lui stesso, viaggiatore impertinente di Blumùn, un tempo sceso alla stazione di Zima e oggi capace di ribaltare la poesia senza speranza dell’Ultimo spettacolo nel galoppo un po’ folle e squinternato di Butch Cassidy, in versione Bandolero stanco, sulla Pampa, traslitterazione argentina di Samarcanda. Laddove silenzio e amore tornano ad avere la stessa voce.
A questo punto la classe, pardòn, il pubblico, non può far altro che alzarsi e applaudire un uomo di 81 anni capace - nonostante tutto - di spiegare che la vita non solo va difesa come le donne (Cappuccio Rosso), che ne sono le uniche reali custodi, ma soprattutto amata (Chiamami ancora amore).
Come «la sola valigia che si può portare
una notte d'inverno un viaggiatore».
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