IL PERSONAGGIO
Franco Novati: «I miei 30 anni in prima linea»
L’ex dirigente del Commissariato di polizia si racconta
All’inizio ci fu “Telefono giallo”, la trasmissione di Corrado Augias che negli anni Ottanta rappresentò l'ingresso ufficiale della cronaca nera, dei delitti irrisolti, nella televisione italiana. E alla fine della carriera la standing ovation dei colleghi all’ultima festa di San Michele Arcangelo, patrono della Polizia di Stato. Franco Novati, che negli ultimi dodici anni ha diretto il Commissariato di Busto Arsizio, è in pensione dal primo novembre, dopo oltre tre decenni di servizio, quasi tutti in provincia di Varese. Ha raggiunto la qualifica di primo dirigente. È stato un punto di riferimento per generazioni di poliziotti. Ha molto indagato, anche perché era quello che più gli piaceva fare. È stato una sicurezza per i Questori quando c’era da garantire l’ordine pubblico. E per i cronisti è stato sempre «il dottor Novati», al quale si dà rigorosamente del lei anche dopo trent’anni di conoscenza, forse un po’ per gioco perché da parte sua, anche nei rapporti con la stampa, ci sono state sempre competenza, umanità e ironia. Impacchettate e riconsegnate le divise, lo abbiamo incontrato a casa sua, dove un’intera parete è coperta dalle foto dei cinque figli che ha avuto con la moglie Alessandra: da Davide, 27 anni, a Margherita, 16, con in mezzo Matteo, 25, Tommaso, 21, e Luca, 18. Una “squadra” di cui occuparsi ancora di più adesso, anche se il futuro, da fresco pensionato sessantenne, è tutto da scrivere: «Ma farò senz’altro sport, sono molto competitivo», spiega, scherzando ma non troppo.
Dottor Novati, perché è entrato in polizia?
«La cosa potrà far sorridere perché a farmi decidere di intraprendere questa strada, cioè il concorso dopo la laurea a Milano, non è stata una tradizione familiare - nessuno della mia famiglia aveva mai lavorato in polizia o nella pubblica amministrazione - ma fu, oltre al valore sociale di questo tipo di servizio, una trasmissione televisiva, “Telefono giallo”, condotta da Corrado Augias. Trattava in ogni puntata un caso di cronaca ospitando funzionari di polizia o ufficiali dell’Arma dei carabinieri. Questa trasmissione mi appassionò e contribuì a farmi decidere di fare il concorso. Da allora l’investigazione è sempre stata la mia stella polare».
Ora la pensione dopo trent’anni di servizio in provincia di Varese: come sono stati questi trent’anni?
«Sì, purtroppo in pensione, perché avrei volentieri continuato a fare quello che stavo facendo. Sono stati trent'anni appassionanti, che hanno costituito la continuazione di quello che avevo già fatto prima, partendo da Venezia, passando da Reggio Calabria e arrivando in una realtà molto diversa come quella della provincia di Varese. E sono stati trent'anni molto esaltanti e divertenti, direi, anche se l’espressione può sembrare impropria. Dopo aver sperimentato realtà criminali e sociali molto diverse come quelle calabresi, ho trovato una provincia con un'opinione pubblica particolarmente sensibile ed esigente, ma allo stesso tempo molto vicina alle forze dell'ordine e alla Polizia di Stato. Abbiamo fatto molto, abbiamo lavorato molto e sempre, direi, in perfetta sintonia con il contesto sociale della provincia».
Quattordici anni da dirigente della Squadra Mobile, poi a capo del Commissariato di Gallarate e della Divisione Polizia Amministrativa e Sociale della Questura, infine il Commissariato di Busto Arsizio: indagini, personaggi e volti da ricordare?
«Sicuramente l'operazione Terminus nel 1997 con la Procura di Varese, che portò all'arresto di oltre 40 persone, alcune delle quali appartenenti alla storica mafia siciliana palermitana. L’operazione Acheronte, che ci consentì di smantellare un'organizzazione di albanesi che favorivano l'immigrazione in Italia di donne con loro connazionali per sfruttarle come prostitute. E un'indagine che ci coinvolse emotivamente fu anche quella che portò alla scoperta, all’individuazione e all’arresto degli autori dell'omicidio a scopo di rapina di Eugenio Milani, un sedicenne ucciso nella tabaccheria gestita dalla madre, ucciso proprio perché tentò di difenderla dai malviventi. Un arresto avvenuto sei anni dopo il delitto. Sono stato fortunato, perché ho trovato personale degli uffici - dalla Squadra Mobile ai Commissariati - che ha sempre svolto bene queste attività».
Non solo indagini, però: è considerato anche uno specialista dell’ordine pubblico…
«Sì, ne ho fatto molto, credo di avere il record di servizi in provincia di Varese, anche perché sono stato qui molti anni. Partite di calcio, manifestazioni di ogni genere. I Questori mi hanno scelto spesso e questo è stato naturalmente lusinghiero, ma devo dire che è un aspetto faticoso del lavoro, logorante dal punto di vista nervoso ed emotivo: l’ordine pubblico richiede organizzazione, lucidità e tranquillità, e allo stesso tempo bisogna essere pronti a cambiare le carte in tavola a seconda della piega che prendono gli eventi».
Tanti anni sempre in provincia di Varese, mentre tra i funzionari di polizia sono frequenti trasferimenti e traslochi anche per “salire di grado”: rimpianti dal punto di vista della carriera?
«Non mi pento di nulla, ho fatto quello che mi piaceva fare: con i piedi per terra, stando a contatto con il territorio, cercando di capire il contesto sociale che influenza il nostro lavoro di poliziotti. E poi, avendo cinque figli, altre scelte mi avrebbero tenuto lontano da casa e dalla famiglia. È andata bene così».
A Busto Arsizio è stato negli ultimi dodici anni: come “legge” la situazione della sicurezza qui e in provincia?
«Quello di Busto è un territorio di caccia ricco, se così si può dire, per un poliziotto: ci siamo dedicati soprattutto alla lotta al traffico di droga, con le organizzazioni di stranieri che in questo momento hanno praticamente il monopolio del mercato e sono più difficili da aggredire, più sfuggenti, rispetto ai tradizionali gruppi criminali italiani. Ci sono molti codici rossi, e quindi reati contro le fasce deboli. Un po’ di immigrazione clandestina. Ed è preoccupante il fatto che sono in crescita i reati commessi da minorenni e ai danni di minorenni. Qui, rispetto alla mia esperienza in Calabria, dove l’opinione pubblica era sopita e impaurita, vedo molta sensibilità per la sicurezza, che a volte diventa ipersensibilità. C’è la sicurezza reale e c’è quella percepita, e per quanto riguarda quest’ultima non c’entriamo solo noi, ma anche i social, Internet, i mezzi di informazione. Prendiamo il fenomeno del bivacco o quello delle brutte facce che girano in piazza: su queste cose è difficile operare, se non vengono commessi reati, ma su queste cose nel nostro territorio la sensibilità è particolarmente accentuata».
Al di là delle grandi indagini, un caso che l’ha colpita dal punto di vista umano?
«Il caso di una ragazza di Busto Arsizio che viveva con il padre. A noi nota già da quando aveva 13 anni. Tossicodipendente, ingestibile, a un certo punto ha anche rotto un ginocchio al padre con un calcio. Grazie alla denuncia del genitore per maltrattamenti, siamo riusciti con molta fatica a farla andare in comunità, dove è guarita, si è disintossicata, è rinsavita. E il padre ha scritto una lettera alla mia collaboratrice che si era occupata del caso per ringraziarla. Sono aspetti umani che a volte emergono nel nostro lavoro».
Se dovesse sintetizzare in una frase il suo essere stato un poliziotto, cosa direbbe?
«Mi viene in mente una cosa che una volta mi ha detto un collega: “Franco, tu hai una visione romantica della polizia”. Non penso volesse farmi un complimento, ma per me lo è stato. Sì, ho una visione romantica della polizia: tutelare le vittime, individuare i colpevoli».
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